Spillover

di Michele Mezza

#Spillover15: la mascherina come “Grim calculus”

A Flint, nel Michigan, uno degli stati chiave delle prossime presidenziali americane, una guardia giurata è stata uccisa perchè pretendeva di far valere l’obbligo della mascherina in pubblico. Come sempre negli USA la contrapposizione fra diritti individuali e pretese sociali appare più evidente e contrastante. Paradossalmente la pandemia ha stanato un istinto ideologico e politico che stava crescendo da tempo in varie aree sociali di diverse regioni del pianeta. Si tratta di quella che Donatella Di cesare nel suo saggio Virus Sovrano? definisce come l’identificazione fra libertà e garanzie. Questa è la nuova bandiera della destra più determinata ed eversiva, quella destra che rivendica come proprio diritto, anzi come unica affermazione della propria libertà, la mancanza di ogni vincolo comunitario nel contrasto al virus. Come ha sintetizzato il teologo reazionario, in difesa della spavalderia televisiva del presidente Trump nel mostrarsi a volto scoperto, “la mascherina è roba da codardi”.

Connessa a questa sorte di neodannunzianesimo vitalista, del buttare il cuore oltre l’ostacolo, ed opporre al contagio la propria irriducibile ansia individualista è la strategia di elites tecnocratiche di battere il virus ignorandolo e riprendere, ad ogni costo, l’attività economica, come ha teorizzato l’Economist nel suo editoriale del 2 aprile, A Grim calculus, un calcolo pericoloso. I dati vanno in tutt’altra direzione: chi ha ignorato le precauzioni del lockdown, prevalentemente paesi forti, ha pagato un altissimo tributo di decessi e di ricoveri, mentre chi, come l’Italia e i paesi deboli europei, ha ridotto il prezzo pagato al virus. Il «Government Response Stringency Index» dell’Università di Oxford —una misura della restrittività dei lockdown, da 1 per la massima apertura a 100 per la massima chiusura— mostra che a metà marzo la Grecia e il gruppo dei Paesi d’Europa centrale e orientale si era già mosso. L’Albania era a 84, la Slovacchia a 71, la Romania a 67, la Polonia a 60, l’Ungheria a 59, la Grecia a 57. Invece i Paesi più ricchi sembravano più rilassati (la Germania a 37, la Francia a 50, il Belgio 53, la Gran Bretagna a 11, la Svizzera 46, la Svezia a 18). Una stretta del confinamento in quasi tutta l’Europa occidentale sarebbe arrivata solo a fine marzo. Sono stati quindici giorni fatali.

Due mesi e mezzo dopo ci sono tutti i segni che l’umiltà dei Paesi meno forti d’Europa ha dato dei frutti. Li ha resi meno fragili. In base ai dati del Worldometer, l’Albania venerdì sera contava 11 morti per milione di abitanti, la Gran Bretagna 536. La Grecia contava 16, il Belgio 795. La Slovacchia 5 morti, la Francia 432. La Svizzera 220 morti, la Romania 60. La Germania 99, la Polonia 26. Così la consapevolezza della propria fragilità sembra aver reso a nazioni meno sicure di sé un grande servigio.

Ma perché i ricchi hanno reagito cosi spavaldamente, esponendosi ad un fallimento politico, con conseguenze sul piano del controllo dei consensi? Con la sola eccezione, al momento della Germnia, dove le circostanze e la proverbiale efficienza amministrativa ha reso la disinvoltura nella gestione della pandemia meno dirompente in termini di costo sociale, per il resto dei paesi forti si annuncia una stagione di rendiconto elettorale problematico. La Svezia, la Norvegia, la stessa Francia o l’Inghilterra, per non parlare degli USA di Trump, dovranno sudare non poco per limitare lo scontento e la protesta sociale. Gli ospedali, dove ce ne sono di pubblici, sono ancora traboccanti, il numero dei morti rimane alto, e non si vede un esaurimento dell’ondata.

Il virus ha svegliato quel mostro che sonnecchia nell’amministrazione, che è il sovranismo, ancora più pericoloso e subdolo quando si presenta come necessità economica e non opzione ideologica, che ancora la Di Cesare descrive nel suo scritto quando analizza quel connubio fra potere e immunizzazione che cambia i modelli di governance in occidente: ”sovrano è chi protegge dalla conflittualità diffusasi lì fuori, chi biocontiene e salvaguarda, in uno scontro memorabile, la narrazione occidentale tra ambiti progressisti della democratizzazione, dove hanno diritto di abitare gli immuni, e le periferie della barbarie dove possono essere esposti tutti gli altri”.

Lo spillover vero non è stato quello fra un pipistrello e un uomo, in un mercato di Wuhan, quanto fra l’emergenza sanitaria ed i muri proprietari che si volevano costruire in occidente e che ora si ha il pretesto per renderli ancora più invalicabili. Paradossalmente nel momento in cui si celebra il trionfo del welfare, del servizio pubblico sanitario, di una strategia economica keynesiana, si devono ricostruire le case matte ideologiche, riportando al centro il concetto di proprietà e di patrimonio, a partire da quello genetico. Bandiera di questa contropandemia sociale il concetto di Privacy che si oppone ad ogni affermazione di strategie terapeutiche come cura comunitaria e collettiva. La privacy diventa il puro che ognuno di noi alza per difendersi da intromissioni pubbliche, per arginare il potere sanitario e, attraverso il medico, di un sentimento sociale di reciproca responsabilità.

Non mettersi la mascherina e non voler essere tracciati dal sistema sanitario significa proclamare il primato individuale che si oppone persino alla propria sicurezza, afferma l’idea di volersi “proteggere dalle protezioni” per non piegarsi ad un potere democratico, come conclude il suo libro Donatella Di Cesare. Una privacy che si fa forte contro lo stato ma tace e diventa complice quando deve interloquire con i monopoli privati dei big data, come Google e Apple, che dettano le condizioni per tollerare l’esercizio del tracciamente sanitario ai singoli stati attraverso l'app. Il capitalismo della sorveglianza, per dirla con Shoshanna Zuboff, diventa così il vero vaccino ad ogni tentazione sociale che la pandemia possa indurre. E il rifiuto della mascherina ne è la sua bandiera.

#Spillover14: Il virus come limite dell’intelligenza artificiale

"È una transizione incredibile nell'arco di cinque giorni sono cambiati comportamenti, bisogni consumi. Perfino l’intelligenza artificiale sembra non capirci niente. Non puoi mai sederti e fingere di nulla in un tale trambusto". La constatazione è di Rael Cline, CEO di Nozzle, una delle principali società di consulenza per la gestione della pubblicità istantanea su Amazon. Più sinteticamente Non è mai stato addestrato su un picco come questo, quindi il sistema era fuori di testa", dice Rajeev Sharma, vicepresidente globale di Pactera Edge una società di svilluppo di soluzioni di intelligenza artificiale.

Ma se nemmeno l’intelligenza artificiale sembra ritrovarsi come è possibile pensare di rimettere il dentifricio della nuova società a distanza nel tubetto delle precedenti categorie e modelli sociali? Come è possibile che si ritenga di poter ripristinare una griglia socioeconomica basata sulle stesse identiche strutture e dinamiche di interessi che avevamo a gennaio? Questo è infatti quello che traspare dall’insieme dei provvedimenti economici ma anche dal dibattito stesso politico che rimane tutto avvitato su quello che c’era prima, come dimostra il maxi decreto varato dal governo in questi giorni.

Già a metà marzo gli algoritmi che orientavano le offerte e le segnalazioni per ogni singolo utente delle piattaforme di ecommerce, imparando con le informazioni che estraevano dagli stessi clienti, sono entrati in fibrillazione. I conti non tornavano, i grafi che disegnavano comportamenti standard, creando una geoeconomia globale in base alla quale le grandi piattaforme del commercio online pianificano le loro relazioni con ognuno dei milioni di utenti, non riuscivano più a raccapezzarsi nel guazzabuglio delle domande e soprattutto degli input che guidavano desideri e necessità.

Le categorie che ingabbiavano i nostri consolidati usi e costumi non funzionavano più e dunque gli algoritmi non riuscivano a prevedere e conseguentemente a condizionare la domanda del mercato. Lo sciame, per usare l’immagine con la quale il filosofo digitale tedesco-coreano Byung-Chul Han ha incardinato le geometrie sociali della rete, si scomponeva e diventava un pulviscolo ingovernabile. Le stringhe psicocomputazionali che individuano l’incubazione dei desideri, in base alle quali Amazon o Storify offrono risposte prima delle domande, non erano più decifrabili. Era entrato in crisi quel modello sociale che aveva incubato l’attuale dominio dei grandi monopolisti del calcolo per cui, già nei lontani anni 80, un preveggente Michel Foucault ci aveva avvertito che “più che a conoscere la realtà gli indicatori matematici mirano a guidare i comportamenti”.

Quegli indicatori prescritti si basano su una combinazione di analisi sui riflessi emotivi e psicologici cui si sommano i flussi statistici delle decisioni quasntitative. L’integrazione di questi due valori -psicologici e statistici- determinano i patrimoni dei grandi gruppi del big data.

Si svela così il backstage di quel prodigio cognitivo che si ripete innumerevoli volte al giorno, quando gli algoritmi, profilando la stessa azione del concepimento di un nostro desiderio, lo scompone lo cataloga in modelli preordinati ed infine lo sovrappone agli standard comportamentali, affinati negli anni, per ottenere la calcolabilità dei comportamenti e delle nostre reazioni a determinati input.

Ovviamente premessa di questa economia telepatica, potremmo definirla, in cui qualcuno riesce a concepire prima di noi che cosa faremo noi, presuppone non sorprese ma conferme rispetto alle aspettative che gli algoritmi nutrono sui nostri meccanismi neurali pianificati dal programmatore. In questa spirale, i dati che noi trasmettiamo alla piattaforma non sono informazioni ma la conseguenza di un punto di vista che l’algoritmo ci impone. Solo un evento imprevedibile, un cigno nero come è la pandemia, poteva squarciare il velo che protegge questo implacabile sistema e che aveva perfettamente analizzato Shoshanna Zuboff nel suo saggio sul Capitalismo della Sorveglianza ( LUISS Editore, Roma 2019) ,quando descrive il meccanismo trionfante di Google basato sul cosidetto “surplus comportamentale”, quell’indicatore che misura il predominio dell’algoritmo del motore di ricerca nel coniugare la sua azione prescrittiva con la statistica di adattamento dell’utente. Quello che Sergey Brin, uno dei due fondatori del gruppo di Mountain View insieme a Larry Page, tronfiamente sintetizza quando riconosce che gli utenti “non avrebbero nemmeno dovuto scegliere le parole chiave per le loro domande,le avrebbe scelte direttamente Google per loro”.

Nelle settimane del picco del contagio gli utenti hanno cambiato anima, sembrerebbe, sorprendendo gli algoritmi semantici dei grandi centri di analisi comportamentale, in particolare le grandi piattaforme di eCommerce che si sono scoperte del tutto inadeguate a leggere fra le righe dei nostri commenti o conversazioni online. Molte di queste piattaforme hanno dovuto integrare i propri automatismi con operatori umani che manualmente hanno corrette e adeguato le offerte che venivamo proposte, rendendole coerenti con il clima del momento.

Ad Aprile del 2020, con alle spalle le Idi di marzo che in tutto il mondo hanno portato i decessi a superare la quota di 2 cento mila, per poi arrivare a 3 cento mila, dietro le quinte del commercio digitale si correva ai ripari.

La Phrasee, con sede a Londra, è un'altra società di intelligenza artificiale di punta del mercato. Utilizza l'elaborazione in linguaggio naturale e l'apprendimento automatico per generare copie di email marketing o annunci di Facebook per conto dei suoi clienti. Per il suo successo è indispensabile trovare il tono giusto, sintonizzarsi con il senso comune. La sua intelligenza artificiale funziona generando molte frasi possibili e quindi eseguendole attraverso una rete neurale che seleziona le migliori. Ma poiché la generazione del linguaggio naturale può andare molto male, Phrasee ha sempre integrato i propri algoritmi con un nutrito reparti di operatori umani che controllano ciò che entra e esce dalla sua IA.

Quando Covid-19 ha colpito duro, Phrasee ha capito che poteva essere necessaria una maggiore sensibilità del solito e ha iniziato a filtrare il linguaggio aggiuntivo attraverso una selezione manuale più robusta. La società ha vietato frasi specifiche, come "diventare virale" e non consente il linguaggio che si riferisce ad attività scoraggiate, come "abbigliamento da festa". Ha persino eliminato gli emoji che potrebbero essere letti come troppo felici o troppo allarmanti e ha anche lasciato cadere termini che possono alimentare l'ansia, come "OMG", "preparatevi", "rifornitevi". "Le persone non vogliono che il marketing le faccia sentire ansiose e paurose: sai, questo accordo sta per scadere, pressione e pressione", afferma Parry Malm, CEO dell'azienda.

Il virus sta vaccinando la tecnologia, facendole conoscere il dolore e l’apprensione, come variabile non episodiche o momentanee dell’animo umano. La coda lunga della catena di Amazon, con i suoi due milioni e mezzo di produttori che usano la piattaforma e la logistica del gruppo di Jeff Bezos per arrivare ai clienti nel mondo sta ora imparando un nuovo linguaggio, una nuova grammatica commerciale, un nuovo modo per penetrare nei recessi delle psicologie e dell’inconscio del mercato.

Fino ad oggi uno dei fattori principali per convincere il cliente a riempire il carrello virtuale della spesa digitale erano i tempi di consegna. Per questo Amazon stressava i suoi venditori, costringendoli a capriole ed a stressare a loro volta la rete di consegne a domicilio. Nei momenti di crisi l’affidabilità della merce, la sua resistenza, la certezza della consegna prevalgono sulla velocità e di conseguenza tutto quell’invisibile gioco di intelligenze che interferiscono le une con le altre determinando una concatenazione di adeguamenti che poi sfocia nel fatturato si deve riclassificare. Deve trovare modalità, vocabolari, emozioni sintonizzate con quelle che stanno maturando nella società, soprattutto con i cambiamenti repentini che il cambio di un dato, come l’indice di contagiosità , può produrre su milioni di persone. Questa imprevedibilità emotiva ha mostrato i limiti degli algoritmi predittivi. La sequenza di calcolo dei comportamenti basata sul processamento di masse di dati enormi non è più sufficiente. Bisogna aggiungere appunto la telepatia, nel senso più etimologico: patire insieme.

Tutto ciò è possibile solo con teams professionali dedicati che leggono le dinamiche sociali, cogliendo i fattori che possono modificare la sensibilità collettiva e particolare, di singole tipologie sociali. “Uno shock per molte persone che presumevano che tutti i sistemi automatizzati potessero funzionare da soli” dice ancora Radael Cline, il CEO di Nozzle che aggiunge: "Hai bisogno di un team di data science in grado di collegare ciò che sta accadendo nel mondo a ciò che accade sugli algoritmi. E’ l’unico modo per essere sicuro che un algoritmo possa comprendere almeno alcune cose di quanto ci sta accadendo”.

Ma come spiegano i cinesi, il termine crisi è sempre la combinazione di due concetti: problema e opportunità.

Questa defailance dell’I.A. sta gia producendo una reazione nel sistema e una parte del dentifricio del coronavirus sta rientrando nel tubetto dell’automatizzazione digitale.

Amazon sta rielaborando i dati, estendendo la gamma della comprensione e della sensibilità dei suoi algoritmi. Google e Facebook stanno affinando le proprie capacità di decifrazione dei nostri desideri. Netflix sta guardando i suoi utenti che la stanno usando. La catena del valore cognitivo riparte ma mai come prima. Le nuove problematicità psicologiche hanno aperto il mercato a nuovi operatori. Proprio in Italia, a Modena, una realtà che opera da molti anni, ha trovato un proprio spazio di mercato proprio nella telepatia, ossia nella capacità di interpretare e seguire l’evolversi del senso comune, cogliendo i passaggi degli stati animo, che ad esempio da una prima paura curvano sulla tristezza, modificando proprio comportamenti e relazioni. E’ la Expert System , una società di Intelligenza artificiale che proprio per la sua abilità telepatica ha potuto conquistare clienti quali l’indice Dow Jones della borsa di new York o la prestigiosa rivista scientifica inglese New England Journal of Medicine.

L’azienda italiana ha sviluppato una propria ontologia dell’emergenza, lavorando fin dai primissimi momenti della pandemia, ai primi di gennaio ad una Medical Intelligent Platform che consente di leggere e interpretare proprio le fasi di una potenziale incubazione dell’epidemia, interpretando e analizzando una pluralità di segnali che ognuno di noi rilascia sulla rete. In questa piattaforma, rispetto alle più titolate e commercialmente diffuse sul mercato, si procede mediante un metodo di disambiguamento di ogni singola parola, ossia di associazione a quel termine del significato più coerente e pertinente non solo con l’espressione che la contiene ma all’intero contesto cognitivo di cui fa parte, scovando così il significato più autentico che si voleva attribuire al termine.

Dal gennaio del 2019 -cioè da tempi non sospetti– Expert System lavora col governo canadese e australiano sulle minacce biologiche. Dopo aver vinto un bando gli ha proposto un sistema che colleziona dei dati, che in questi dati va a cercare dei segnali (sintomi e patologie) filtrandoli sulla base di eventi di vario tipo, sottoponendo poi in tempo reale queste informazioni a persone che devono andare a verificare se in quel momento una particolare sintomatologia possa rappresentare la probabilità di una nuova esplosione epidemica. In altre parole, se tante persone nello stesso momento e nello stesso posto denunciano un malessere che la letteratura medica associa al Covid-19, il computer potrebbe lanciare l’allarme e segnalare una nuova incarnazione –mettiamo– del virus di Wuhan. “Il fallimento del sistema di sorveglianza attuale non funziona perché è troppo lento”, spiega Andrea Melegari, vice presidente della società Noi crediamo” – dice il vicepresidente di Expert System che conclude “noi pensiamo che debba essere profondamente attualizzata la biosorveglianza, con un paradigma del tutto diverso: ci vuole un sistema centrale – non certo Expert System, ma le regioni o il ministero della Sanità, che raccolga dati da tutti coloro che ce li possono fornire. Il pubblico non solo va dal medico ma spesso scrive su Facebook o su Twitter come si sente, che ha fatica a respirare, etc. Ecco tutti questi dati devono essere fatti confluire e vanno trattati, aggregati, perché solo così possiamo intercettare la presenza di nuove minacce”.

L’Italia con il decreto del governo sul riavvio diventa un’unica grande ZES, zona ad economia speciale. In tutto il paese si abbattono i carichi fiscali, si pospongono le scadenze commerciali, si sospendono pagamenti e tariffe. Insomma l’economia diventa a costo zero, almeno per i servizi e il fisco. Ma cosa produce?

Dopo due mesi di lockdown il sistema economico è diventato solo un grande mercato di sovvenzioni e di finanziamenti, meglio se a fondo perduto. Ma per fare cosa? Al momento sicuramente per cercare di riprendere a fare quello che si faceva.

#Spillover13: Riaprire la politica prima dei bar

Ma che paese è questo in cui abbiamo ancora obitori pieni di bare e ospedali in allarme rosso per un rischio di recidiva e la gente chiede solo di aprire bar e spiagge?

Certo che sono lavoro gli esercizi commerciali e il sistema turistico ma c’è modo e modo per uscire, sempre che si stia davvero uscendo, dalla tragedia che ancora ci circonda. Gli aperitivi eleganti dei Navigli a Milano e gli schiamazzi sulla piazza di Mondello a Palermo ci parlano di altro che di lavoro.

Anche questa crisi, come sempre, sembra aver indurito la coltre speculativa e parassitaria di questo sistema economico, dove solo un ceto medio predatorio e assistito riesce a galleggiare, rivendicando i propri privilegi e le pretese del proprio modello di vita. Il segnale che sta spargendosi, non solo in Italia ma in un’Europa che ci guarda, è quello di una comunità edonista e compradora che considera suo diritto inalienabile potersi recare nelle seconde case o magari programmare escursioni in barca, più che riprendere la corsa produttiva o ripristinare il funzionamento di servizi vitali come la scuola o il circuito dei beni artistici.

L’ansia di liberarsi dalle angosce di queste settimane è condivisa e per certi versi anche indispensabile per darsi una spinta vitale. Ma in quale direzione?

La bussola che guida tutte le discussioni e le contrarietà di questi giorni è sempre e solo quella delle indennità, dei contributi, degli indennizzi, mai quella degli investimenti, dei progetti, dello sviluppo. Il governo continua a procastinare la fase 2 degli interventi procedendo per regolamenti e tabelle degli interventi a tampone. Si parla di contributi a fondo perduto, di sostegno ai redditi minimi, di rete di protezione per il lavoro nero, di finanziamenti a fondo perduto alle imprese. Ma non si è perso fino ad ora un solo minuto a discutere su come imboccare una nuova strada per la ripresa, su dove orientare gli investimenti, come rafforzare la competitività del paese.

La struttura dei ocnsumi, l’articolazione del sistema professionale, il comparto dei servizi, le intermediazioni burocratiche e soprattutto le strategie industriali sembrano al di fuori di ogni intervento. Si lavora sempre in un perimetro dato in costanza di obiettivi e strategie. Non si cambia nulla.

Per questo si incoraggia la politica del ripristino, del ricomincio dove ho interrotto: dai navigli di Milano o dalla spiaggia di Mondello. La borghesia di questo paese si ripresenta ai nastri di partenza con le stesse ambizioni: acquisire quote di spesa pubblica, scaricare perdite sull’erario, recuperare margini dall’internazionalizzazione passiva, conquistare clienti con un ribasso dei costi. Siamo quelli di sempre, quelli del miracolo economico degli anni 60, dove i primasti industriali e tecnologici del paese ( Olivetti, ENI, CNEN, Chimica, Areospazio, Genetica ) finirono nelle linee degli elettrodomestici e sulle autostrade della FIAT, producendo congiunture subalterne e parassitarie; siamo quelli della nazionalizzazione dell’Energia elettrica, che bruciò in velleità speculative di apprendisti stregoni 20 mila miliardi dell’epoca, senza nessun ritorno economico per il paese, siamo quelli delle guerre finanziarie senza capitali, delle scalate incestuose senza strategia.

Entrare in un tunnel con un debito che arriverà al 160% del PIL senza avere una robusta pianificazione di sviluppo, in cui le risorse di emergenza siano già un motore di riassetto per selezione del sistema produttivo è un rischio mortale per la democrazia, altro che le chiacchiere sulla Privacy.

Soprattutto la politica non può seguire e adeguarsi a questa smodata richiesta di ricominciare come prima. Tocca proprio al governo, alla sinistra, riqualificare la propria rappresentanza sociale afferrando uno dei poli di questa possibile contrapposizione sociale.

Un lucido storico come Franco De felice, già nel 1993, dopo mani pulite, un’altra epidemia istituzionale, in un suo saggio sulla rivista Dimensioni e problemi della ricerca storica scriveva: “Il Modo di procedere della crisi del welfare in Italia sembra risorlversi nella definizione di due grandi schieramenti. Il primo comprende i settori più colpiti dalla riorganizzazione e conversione industriale ed anche quelle forze sociali ,o parti di esse, che hanno svolto un ruolo importante nella creazione di quel sistema di garanzie del reddito che tendono a difendere; uno strano intreccio tra sezioni del movimento operaio, settori produttivi maturi o tradizionali ed ampi strati burocratici e professionali che hanno nei grandi apparati gestori delle politiche sociali le proprie radici. Un secondo schieramento annovera i settori più dinamici del capitalismo (soprattutto la piccola e media impresa) ed ampi strati sociali non tutelati o vivacemente critici delle forme in cui le politiche sociali hanno trovato attuazione ,un altro intreccio non meno strano e singolare ma non inedito nella storia italiana, tra liberismo privatista ed antistatalismo(popolare)democratico. Si fa più chiaro che la crisi del welfare è un fatto di accelerazione della crisi dello stato–nazione.”

La lunga citazione mi aiuta con grande precisione e impressionante capacità predittiva di dare un robusto e solido retroterra al ragionamento che provo ad imbastire. Ancora una volta nelle pieghe di un gattopardesco sommovimento sociale che tende poi a consolidare e non a trasformare il tradizionale meccanismo distributivo delle risorse, si appalesavano alleanze e convergenze corporative dove da una parte la rendita di posizione data da un imposto di reddito più commesse cementa un ceto gallegiante e soddisfatto che vuole difendere il proprio primasto nazionale, mentre dall’altra parte si intuisce il formarsi di un nuovo popolo del rischio e della competizione che cerca in acrobatiche combinazioni fra locale e globale uno spazio di affermazione e di contrapposizione con uno stato avversario.

I due mesi di pandemia, proprio nelle dinamiche terapeutiche ci hanno mostratyo le linee di congiunzione di questi interessi: da una parte la sazia Lombardia con le sue filiere di logistica e forniture subalterne al ciclo tedesco, con larghe zone di evasione discale transnazionale, che si è adagiata nella gestione burocratica della sanità attraverso i grandi ospedali e con essa il Piemonte post Fiat e la stessa Liguria, mentre dall’altra parte si è visto un vitalismo sociale anche nel contrasto al coronavirus di aree come il Veneto, l’Emilia Romagna e la Toscana che hanno giocato, con combinazioni e culture diverse, la carte dell’autoorganizzazione degli interessi territoriali persino nella strategia terapeutica.

In questo scenario diventa essenziale il gioco dei numeri. Proprio la capacità di produrre visione sociale attraverso tecnicalità di calcolo che permette di cogliere nelle fasi prodromiche il formarsi del contagio rende plausibile il governo del fenomeno. Proprio Veneto e Toscana si stanno dotando di un federalismo computazionale che dalla sanità inevitabilmente tracimerà a tutti i settori di gestione e pianificazione amministrativa, rendendo queste aree sistemi del tutto autonomi nella stessa azioni di programmazione socio economica. In questa logica diventa indispensabile un inventario delle forse e degli interessi in campo.

Quale partiti per quale società? L’affresco tracciato da De Felice, benchè risalga a 30 anni fa circa, ci aiuta a capire come il concetto di produzione di valore che ci indica Marianna Mazzucato, in contrapposizione a quello di estrazione di valore, ci permetta di comprendere chi siano oggi i soggetti in grado di dare al paese una reale spinta per uscire dalla palude del debito cronico e invece identifica le sacche parassitarie e di pura rendita.

Lungo questo crinale andrebbe oggi resa visibile una battaglia politica che rompa questa gestione emergenziale e ponga realmente il nodo del governo dello sviluppo e non solo della riapertura di bar e stabilimenti balneari.

#Spillover12: I giovani come vaccino

La fase 2 apre una nuova storia. Prima si giocava in casa, ora si deve vincere in trasferta. Nelle ultime ore preparatorie dell’apertura delle gabbie, perché tale diventa il guadualismo auspicato ma non organizzato, una liberazione prudente, il quadro appare davvero caotico. Sembra di stare su un set cinematografico agli ultimi minuti, prima della ripresa, quando nulla sembra a suo posto. Poi, di solito, magicamente, ogni apprensione diventa sicurezza. Di solito.

Distanziarsi in mobilità, tanto più se di corsa, o comunque in affanno lavorativo sarà complicato, a lungo andare. Ogni routine è naturale nemica delle accortezze e dei regolamenti.

Lo scenario, però, che viene messo a dura prova riguarda il modo in cui i singoli sistemi regionali reagiranno dinamicamente all’impatto con le variabilità dell’ormai famoso R0, ossia l’indice di contagiosità. Il federalismo dell’epidemia è stato un problema nel problema. E’ nel conto che nei giorni successivi all’inizio della fase 2, il 4 maggio, si potranno registrare degli sbalzi che potrebbero portare la lancetta più vicina alla fatidica quota 1, quando il contagio ridiventa incontrollabile.

Bisogna vedere dove e come questo potrà accadere e con quali riflessi modulari, sull’intero scacchiere sanitario. Gli attriti fra le diverse regioni sulle modalità di apertura delle attività in realtà sono spia di una sostanziale diversità di condizione nella crisi sanitaria. Al netto del quadro macroscopico, che vede al nord Lombardia e Piemonte ancora compromessi dal contagio, con Veneto e Emilia Romagna in graduale distacco dal gruppo di testa della pandemia italiana e le regioni del sud più leggere negli indicatori della controllabilità della malattia, subentrano le condizioni socioeconomiche storiche a rendere più complicato il modo con cui si conduce l’azione di contrasto del coronavirus.

Intanto lo scenario demografico. Il virus si è infatti rivelato letale oltre misura nelle fasce d’età superiori ai 70 anni, con indici che arrivano a sfiorare l’iperbolica quota del 15/18% oltre gli 85 anni. Un’età certo non infrequente ormai nel nostro paese, che è il secondo nel pianeta per aspettative di vita, dopo il Giappone. Questo record però è distribuito in maniera molto irregolare, con due estremi: la Liguria, regione più vecchia d’Italia, e la Campania, la più giovane. Attorno ai due estremi si concentrano altrettante galassie che vedono il centro nord più simile alla Liguria ed il centro sud alla Campania. Questi dati danno una prima spiegazione, al netto della virulenza dei focolai originari quali quelli che si sono accesi in Lombardia e Veneto, di quanto è accaduto lungo lo stivale. Un lombardo veneto flagellato con punti di contagio per certi versi incontrollabili ed il resto d’Italia con andamenti più simili alla Germania, se non ai paesi nordici, con incidenza sotto la media mondiale.

A fare la differenza la demografia, più che l’organizzazione sanitaria.

Le regioni più giovani, tutte al sud, hanno un grande capitale sociale che devono ben gestire, non solo per galleggiare in una rendita di posizione.

Questa risorsa dei giovani già ha schermato le regioni meridionali nelle precedenti epidemie di influenza, di gran lunga meno letali, come quella del 2017, in cui, come si evince dai dati Neodemos, si vede che la Campania produsse solo un terzo dello sforzo sanitario necessario per curare i malati della Lombardia o del Piemonte.

Già questo doveva mettere in allarme i responsabili nazionali e locali della sanità per una chiara esposizione delle regioni considerate a torto più protette come appunto il triangolo ricco del nord.

Poi subentra anche la cura a condizionare la risposta al virus.

In questa fase il mantra degli epidemiologi e dei virologi ci ripete che la strategia sanitaria deve spostarsi dall’ospedale al territorio. Non solo perché è lì che si deve cogliere e soffocare un eventuale ritorno di fiamma ma anche perché gli indirizzi terapeutici hanno ormai maturato una scelta che considera la risposta farmacologica efficacie che viene somministrata nelle prime 48 ore dall’insorgere dei sintomi.

Se questa è la strategia diventa decisiva, soprattutto in vista dell’autunno quando si annuncia una recrudescenza del virus, una politica puntuale e organizzata di assistenza territoriale. E qui cambia la fotografia del gruppo di regioni.

In prima fila, fra le più attrezzate proprio le regioni dove si è abbattuta la prima ondata del morbo, come Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna. Il nord infatti mentre registra un vantaggio non incolmabile nel rapporto fra posti letto e popolazione rispetto al sud con 33, 7 postazioni ospedaliere ogni diecimila abitanti, rispetto alle 28, 2 del centro sud (Dati Ministero della Salute urly.it/355z1 ), accusa un distacco abissale proprio sui malati assistiti a domicilio dove il divario vede 88 malati assistiti ogni 10 mila abitanti nel centro nord e solo 18 nel centro sud.

Qui si delinea l’origine di una vera disfatta, qualora dovesse davvero ripresentarsi una dinamica del contagio che attraversa l’intero paese. Tanto più che il blocco di regioni del sud si troverebbe, ovviamente, caricate dall’atavica arretratezza economica, aggravata ancora dai postumi della crisi finanziaria del 2008: Campania, Puglia, Calabria e Sicilia ancora producono la metà della quota di PIL che invece proviene dalle regioni settentrionali . Questa coincidenza di una inadeguatezza nelle reti sociali con un ritardo economico ci porta a pensare che non si possa non procedere con un intreccio di queste due leve.

La riorganizzazione del sistema assistenziale, in un area dove i giovani sono ancora abbondanti, deve diventare anche una straordinaria politica formativa e di intrapresa economica, che renda l’intero tessuto sociale una trama forte, senza delegare agli interstizi oscuri del lavoro nero e malavitoso le opzioni di flessibilità. Come scrive Giuseppe Berta sul numero di Limes Il Mondo Virato, dedicato ad Aprile alla geopolita sanitaria, “Perché è questo il vero compito che sta difronte all’Italia post-epidemica, la conversione di un cataclisma sanitario e poi soprattutto economico, in una spinta a rimodellare la compagine delle sue funzioni, ad amministrare le sue attitudini e capacità effettive in un disegno coerente per ritrovare il proprio posto nel mondo”.

Di questo disegno la strategia terapeutica non è un episodio emergenziale ma la bussola che ci indica una nuova idea di stato e di pubblico,che ridia ruolo e credibilità imprenditoriale al decisore politica nel rimodellare gli standard di convivenza sociale, di cui per lungo tempo la salute sarà il driver indiscutibile.

In questa strategia due sono oggi i fattori che danno nuova forma alla politica: le scelte terapeutiche che diventano paradigmi sociali, con il privilegiare il territorio sull’ospedale, le forme preventive sulle emergenze finali e la sovranità sui dati, sulla potenza di calcolare e prevedere l’andamento del contagio come dinamica epidemiologica essenziale per governare l’evoluzione dei processi economici e relazionali sul territorio.

#Spillover11: Chiavi o termometri?

Il dualismo fra economia e salute diventa ribellione sociale e segna il crinale su cui si sta incamminando senza bussole la nostra democrazia immunitaria. Nelle principali città del paese da Milano a Venezia, a Bologna a Napoli commercianti, ristoratori, parrucchieri, titolari di teatri e cinema, stanno agitando piazze distanziate sbatacchiando le chiavi dei propri esercizi per reclamare finanziamenti a fondo perduto e la libertà di aprire. A tutti i costi.

No allo stato imprenditore, ma solo lo stato pagatore e infermiere.

Al nord questa pressione sale nonostante che persino i governi regionali, tutti della destra, rimangano ambiguamente prudenti. Al sud l’attrito fra ripresa e salute si carica di una connotazione più allarmante e destabilizzante, dietro cui non è difficile da cogliere il profilo di ombre malavitose. Le ragioni della protesta non mancano, manca la ragione.

Da due mesi si è ibernato il sistema economico distributivo, bloccando il formicaio terziario che indubbiamente rappresenta il tessuto economico più esteso.

Il contagio colpisce duramente proprio la meccanica produttiva del tessuto commerciale, basato inevitabilmente sulla relazione, il contatto, la promiscuità, fra esercente e cliente. Il concetto stesso di distanziamento azzera ogni possibile mediazione. Un artigiano, quale un parrucchiere o un camiciaio, oppure un ristoratore, come può distanziarsi e distanziare i suoi clienti, se non riducendo quell’economia di scala che il più delle volte è giù rosicchiata dalla competizione, annullando ogni margine del suo negozio? Al tempo stesso proprio la vicinanza, tanto più se al coperto, è il motore del virus, il terreno di coltura ideale per far camminare il la malattia.

La quarantena ha certamente debilitato, se non proprio affossato, centinaia di migliaia di micro imprenditori. Per questo hanno molte ragioni. Non hanno la ragione per intendere che non si tratta di sbarcare comunque un passaggio emergenziale ma limitato, sfangarla in qualche modo per ripendere il vecchio cammino. Bisogna sostenere l’assenza di reddito, non vedo come si possa finanziarie un ripristino di attività impossibili.

Quanto dura il contagio? Anni. Quanto dovremo procedere con estrema caute, vivendo distanziati? Tanto tempo. Come riorganizzarsi? Non si sa.

Questa appare la realtà. Non si sa, non si è mai fatto, nessuno lo sa.

E’ probabile che nel corso dei prossimi mesi, di un anno complessivamente, la tempesta possa mitigarsi, il contagio cronacizzarsi, e diventare tollerabile, insieme alle terapie più tempestive e ad un vaccino che se non si annuncia risolutivo ci permette larghi spazi di immunità.

Nelle pieghe di questa evoluzione, dove il virus muta rapidamente la sua forma e struttura, almeno con la velocità degli algoritmi di Google, rendendo tutto precario e instabile, è possibile che le imprevidenze del passato che hanno reso mortale e incontrollabile l’epidemia possano trasformarsi in terapie programmate e più sicure, dove la mortalità diventi più marginale e accidentale. Ma bisogna arrivarvi. Vivi, tutti, senza roulette russa.

Questa però non è una posizione di buon senso. E’ politica, è quello che oggi si chiama strategia di priorità. Si sceglie la vita rispetto all’economia. Ma la vita non è sopravvivenza. Deve essere vita, con dignità, come dire il presidente del parlamento tedesco Shauble, ammiccando ad una scelta inversa, quella che identifica dignità con impresa. In Italia sta montando un partito, almeno una piattaforma editoriale e politica che mira ad una strategia determinata, pragmatica, si dice, che sceglie l’impresa: la nuova repubblica di Maurizio Molinari, allineata alla portaerei editoriale del suo proprietario, la Exor di John Elkann, che chiede di tornare a produrre, costi quel che costi.

Poi la nuova Confindustria, del lombardo Bonomi, e la destra più responsabile, da Giorgetti a Berlusconi, che si accosta al governo, insieme alle regioni del nord per sfondare ogni resistenza umanitaria.

Il tintinnar di chiavi sembra non lontano da quel tintinnar di sciabole che frenò il centro sinistra degli anni 60, con il minacciato golpe del 1964. Una bolla reazionaria, che si gonfia con aree di impresa assistita, di circuiti commerciali e terziari largamente minacciati da prima del virus e di economia di sussistenza che rischia di essere sacrificata da una politica di indennità di massa. Manca completamente una prospettiva diversa: come declinare la priorità sanitaria, che spinge persino il Papa a smentire i suoi bellicosi vescovi che volevano tornar a dire messa e fa recedere Francia e Germania da smanie produttivistiche, con una politica di trasformazione, che usi gli ingenti capitali che saranno spesi, in parte anche a fondo perduto, non per prolungare quello che c’era prima ma per guidare un cambiamento, che asciughi le ipertrofie del terziario, che sposti dai semplici consumi privati ad aree di consumi sociali, come l’assistenza territoriale e le forme di sostengo a formazione e produzione a distanza, online, che incentivi riorganizzazione di modelli più competitivi del commercio e della stessa ristorazione o dell’intrattenimento, integrando soluzioni, linguaggi , tecnologie più coerenti con un mondo che non tornerà alle precedenti liturgie artigianali.

E’ proprio il tempo di una politica che voglia e debba connettere i soldi alle idee e le decisioni al consenso, senza lasciare il campo a tentazioni plebiscitarie che agitando chiavi o casseruole hanno già ucciso più di un sogno nel passato.

#Spillover10: Un’app che vaccina il mercato

Più del contagio potè l’app.

Il ministro dell’innovazione Pisano non sarà ricordata per aver dato un contributo essenziale nella strategia contro il contagio, ma sicuramente è stata essenziale per mostrare quale passione e frenesia vi sia nel mondo digitale italiano per la privacy. La sua proposta di app, assolutamente confusa e contraddittoria, ha suscitato più attivismo e partecipazione della stessa drammatica pandemia. Diciamo che la visibilità sul tema privacy ha mosso più del pericolo di ammalarsi. Una mobilitazione di lucidi e illuminati sapienti della rete si è scatenata in tutto il paese a difesa dei dati personali.

Giù le mani da me, si è gridato. Ammonendo governo e autorità a non volersi appropriare di dati che appartengono solo ai singoli individui e che per nessuna ragione, nemmeno la sicurezza pubblica, potrebbero essere socializzati. Se un marziano fosse atterrato nel nostro paese avrebbe legittimamente pensato che la malattia era solo un triste ricordo, che il virus era stato debellato dalla scienza e che rimanevano solo alcuni sciami di assestamento del terremoto. Lo stesso marziano leggendo lettere e opinioni di intemerati scienziati ed esperti avrebbe legittimamente dedotto che vi erano state mire totalitarie di uno stato che aveva con efficienza prussiana controllato ogni informazione. Il tutto in un contesto, nell’eco sistema della rete, dove, proprio per la terribile e dilagante emergenza sanitaria, il potere dei grandi service provider era stato ridimensionato e i preziosi data base con cui gruppi privati scannerizzano l’intera popolazione planetaria erano stati condivisi e usati per il pubblico interesse.

Ovviamente non è così.

Attorno all’app di tracciamento è andata in scena una cerimonia delle ipocrisie intellettuali che ha visto innanzitutto proprio quel ceto progressista e intellettuale, che rappresenta la punta di lancia delle culture più avanzate e europee del paese, andare all’attacco dello stato.

Mentre in tutto il mondo, a partire dagli Stati Uniti, ci si pone il tema di come integrare ed elaborare i dati della rete, in ogni sua articolazione, per mappare aree insondabili del contagio, come sono i gruppi di asintomatici che continuano a diffondere il virus, inconsapevolmente in Italia si pensa di regolare i conti con la burocrazia statale.

Nessuno credo possa pensare di ocntrapporre all’efficienza di Google e Facebook la sgangherata macchina statale ma, in un’emergenza quale quella che ancora ci avvolge, mi chiedo se si possa ignorare che solo la potenza della viralità digitale può oggi credibilmente contrapporsi alle devastazioni di un virus largamente non conosciuto nelle sue acrobazie genetiche ed inafferabile nei suoi cmovimenti immunitari. Se è la rete l’unica potenza che può contenere e mitigare il coronavirus allora bisogna prendere atto che oggi la rete sono solo pochissimi gruppi privati che determinano, al tempo stesso, gli indirizzi scientifici, la ricerca globale, i sistemi di calcolo e l’accumulo di dati. Una situazione talmente paradossale di asfissiante pressione di volontà private su interessi pubblici che persino un'azienda come Microsoft, nota come l’emblema della privatizzazione del freesoft negli anni 70, con la famosa lettera di Bill Gates che imponeva di pagare il codice, si è ribellata, parlando di insopportabile monopolio.

Che tocchi proprio a al gigante di Seattle, sollevare un’elementare questione di civiltà, dimostra come il mercato di Big tech sia oggi in frenetica evoluzione e come proprio i grandi gruppi digitali si stiano riposizionando in vista di un’ennesima capriola strategica. Nonostante le resistenze e le timidezze di istituzioni e forze politiche, che non hanno ritenuto certo di disturbare il manovratore della Silicon Valley, una certa pressione sale dalla società. La pandemia ha reso evidente il nesso fra dati e interesse pubblico, ancora più spietatamente, fra accesso ai database e sicurezza personale.

Negli Stati uniti decine di città , interi stati, molte università ,stanno rivendicando un uso pubblico dei social per poter mappare i comportamenti e i sintomi nel contagio. Solo la rete, con la sua pervasività, la sua viralità, la sua granularità, e soprattutto la sua imponente capacità di raccogliere informazioni involontarie e istintive di circa 4 miliardi di utenti, ha esattamente i numeri e la pervasività della pandemia: coronavirus e social sono oggi le due vere super potenze che si confrontano sul pianeta. Presentano lo stesso linguaggio e un’identica dinamica. Senza l’uso di Internet non si può contenere e soffocare il coronavirus. Non c’è app che tenga.

Per questo sembra che la Silicon Valley voglia giocare d’anticipo. Prevenendo limiti e vincoli che potrebbero essere indotti dalla disperazione.

Dopo ver inibito ogni velleità di governi e istituzioni internazionali nel rivendicare l’utilizzo dei dati sensibili che, pur di matrice pubblica rimangono saldamente patrimonio privati, ora i grandi Over The Top sembrano svoltare verso una strategia sociale. Sembra. L’imperturbabile Mark Zuckerberg, reduce da inchieste e accuse in tutti i continenti per inquinamento dell’ecosistema digitale, si permette di dichiarare al Washington Post che "Il mondo ha affrontato pandemie in precedenza ma questa volta abbiamo una nuova superpotenza: la capacità di raccogliere e condividere i dati per sempre". Abbiamo chi? Verrebbe da chiedere visto che al momento nulla è cambiato nei comportamenti concreti. Google e Facebook si sono infatti limitati a consegnare report parziali di dati largamente insignificanti, senza aver realmente arricchito le informazioni già note. Come risulta anche nel plotone degli esperti della ministra dell’Innovazione Pisano, nonostante che pretenziosi consulenti abbiano accreditato relazioni e contatti privilegiati.

Qualcosa di più sembra essere uscito dai loro forzieri negli USA, dopo robuste sollecitazioni della Casa Bianca. In alcune città sono state elaborate mappe dinamiche del contagio sulla base di ricerche semantiche su Google integrate dalle conversazioni su Facebook. A conferma che i dati delle piattaforme sono indispensabili per contrastare l’infezione. E siccome il lupo perde il pelo ma non il vizio, Google, in accordo con Apple -sono i proprietari dei sue sistemi operativi dei nostri telefonini-, sta cercando di imporre una propria unica app globale che, proprio perchè insediata nei sistemi operativi Android e iOS, sostituirebbe tutti i dispositivi nazionali, fra cui la stessa contestata Immuni italiana, risucchiando così un mastodontico flusso di dati direttamente nei capaci server dei due giganti digitali. Al di là delle architetture dei sistemi e dei dispositivi il tema che non può essere ignorato da nessuno è che l’aspp serve per la strategia sanitaria, ed è il ministero della sanità che deve predisporre i sistemi utente dei dati per renderli coerenti e funzionali alle terapie, assicurando il proprio segreto professionale come carta in più nei confronti di qualsiasi altro soggetto del mercato.

Paradossalmente non è la politica che si muove e reagisce alle cupidigie private ma la mossa del cavallo viene proprio da Microsoft che annuncia entro il prossimo anno ventina di centri per la condivisione delle informazioni in suo possesso. Non solo ma il presidente di Microsoft, Brad Smith, novello Spartaco online, denuncia addirittura che tutti i dati del mondo, proprio tutti, sono controllati da meno di 100 società. Sei di queste ne controllano almeno il 60%. Un monopolio assolutamente inedito nella storia umana. Da questa morsa, dice Smisth Microsoft vuole uscire, promuovendo una condivisione strutturale dei dati con le comunità che li producono. Sarebbe come se lo Zar avesse scatenato la presa del palazzo d’inverno.

L’unico precedente di una svolta cosi radicale proprio nel mercato tecnologico risale ad almeno 30 anni fa quando IBM abbandonò il suo corebusiness dei computer per abbracciare il mercato open source di Linux, cambiando il volto della storica Big Blue. Come allora non fu certo un moto di generosità a mutare il corebusiness del gigante americano, quanto di un’accorta mossa per insediarsi nel segmento più redditizio del mercato, così ora Microsoft,il cui fatturato è solo marginalmente legato alla gestione del big data, presupponendo come matura un cambio di clima nei confronti della proprietà dei dati, mira a diventare la grande software house dei sistemi aperti. In sostanza la partita che si sta giocando all’ombra della pandemia vede da una parte i titolari dei grandi database limitare le concessioni e cercare di guadagnarsi sempre più spazio nel ruolo di service provider delle amministrazioni nazionali, sfruttando la cieca corsa alle app, mentre i grandi centri del calcolo, di cui Microsoft è capofila, rafforzerebbero il loro dominio sul mercato globale attraverso il rigido controllo degli algoritmi. E’ questa la fase due del mercato digitale: impedire un nuovo scontro fra la rendita del big data e la speculazione del software mentre, come spiegava nel suo ultimo saggio sul valore Mariana Mazzucato, si tratta di spingere i poteri pubblici a distinguere fra chi crea valore e chi semplicemente si limita ad estrarlo, mettendo proprio una bussola nazionale al centro di questa scena ed imboccando apertamente la strada che porta a considerare beni comuni, ossia fattori di produzione competitiva e non privatizzabile, sia i dati che gli algoritmi in vista di una nuova espansione sociale dei sistemi intelligenti nella rincorsa al virus.

#Spillover9: Consenso e decisioni in terapia intensiva

La vittoria a mani basse del presidente sud coreano Moon nelle prime elezioni consapevoli del dopo virus, al netto delle amministrative francesi di marzo in cui votarono pochi cittadini nel pieno del contagio montante, ci dicono come stia cambiando la geografia elettorale globale. In Corea vince chi ha fronteggiato positivamente il cataclisma del coronavirus, limitando vittime e danni e soprattutto rimettendo il paese in carreggiata.

Si costituisce così formalmente la prima democrazia immunitaria di cui ci parlava nel febbraio scorso Donatella De Cesare su La Lettura. Ancora allora sembrava una pura speculazione filosofica scrivere che “al cittadino della democrazia immunitaria interessa anzitutto la propria sicurezza, goduta nella nicchia privata e gentilmente concessa dall’autorità politica. Perciò confondo garanzia e libertà”.

Oggi è la cronaca di una mutazione socio culturale che sta riclassificando l’intero sistema delle relazioni istituzionali e politiche. La terapia diventa oggi politica concentrata, si potrebbe dire parafrasando il Lenin di "soviet + elettrificazione" come formula del socialismo. La strategia di cura diventa infatti insieme che il presupposto della sicurezza il modo in cui lo stato afferma la sua centralità nel sistema policentrico delle autonomie locali e il suo primato nella selva delle potenze tecnofinanziarie transnazionali.

La cura è anche la bussola per riconvertire l’idea stessa di wellfare e dunque il linguaggio che meglio ha fatto parlare lo stato moderno con il suo cittadino. Lo abbiamo già visto concretamente in un'altra riflessione della serie di #Spillover, quando abbiamo analizzato cosa abbia distinti l’esperienza virtuosa del Veneto da quella disastrosa della Lombardia. Due grandi regioni del nord più ricco, entrambe guidate da leadership leghiste, che si sono contrapposte di fatto nelle strategie di contrasto al virus: più aderente alle pieghe e alle diversificazioni territoriali il Veneto, che prontamente ha reagito, anche grazie al supporto epidemiologico di una scuola di pensiero quale quella del professor Andrea Crisante, con cerchi concentrici di isolamento e screening di massa, per individuare e separare la dimensione reale del contagio, rispetto alla lenta e burocratizzata Lombardia che ha puntato tutto sui grandi apparati ospedalieri che avrebbero dovuto raccogliere a valle della catena dell’epidemia gli affetti da virus e curarli.

Oggi il presidente della regione Veneto Zaia va oltre: opta direttamente per una delle scuole di pensiero che si stanno affermando nel contenimento dell’epidemia, aderendo alla visione del virus come malattia di origine trombopolmonare e non prevalentemente respiratoria, da polmonite interstiziale. Mentre la seconda opzione porta il sistema ad intervenire con sistemi di terapia intensiva che soccorrono le deficienze repsiratorie con iperventilazione artificiale, il secondo indirizzo sposta il baricentro terapeutica a casa del paziente che va curato fin dalle prime ore con farmaci a base di eparina più antibiotici e anti infiammatori. In questo modo difficilmente il malato si aggrava e giunge poi in terapia intensiva.

Perché una regione, un partito, un leader del territorio abbraccia esplicitamente una strategia terapeutica, legando la sua regione a quella soluzione? Perché la politica, in un contesto di pandemia che non abbiamo mai visto, non può prescindere da questa pregiudiziale. Come si inventa premessa e contenuto del come si governa. Lo abbiamo visto a Wuhan, in Corea del Sud, a Taiwan e Singapore ed ora lo stiamo vedendo in Inghilterra, in Francia, Spagna e, clamorosamente, negli USA. Come si cura diventa condizione essenziale di quali interessi si vogliono rappresentare, quali modelli sociali si vogliono preservare, quali esiti di questa tempesta si vogliono garantire.

#Spillover8: Ossigeno per tutti

Cosa avrà insegnato il coronavirus ai governi e alla politica? Come torneremo a respirare in tutti i sensi? Si è chiesto con una illuminata intervista televisiva il vescovo di Bergamo Beschi; serve innanzitutto ossigeno, per i polmoni, per la mente e per il cuore. Dobbiamo rispondere al virus con più ossigeno. Per questo è utile chiederci fin da adesso cosa abbia per tutti noi rappresentato quel terribile mese di marzo che ha visto il mondo diviso fra inerti sbigottiti e esorcisti irresponsabili dimenarsi dinanzi all'avanzare dell'ondata assassina senza nemmeno un Dio a cui rivolgersi.

Ospedali travolti, medici ed infermieri stroncati anche fisicamente, amministratori che correvano all'impazzata a cercare letti, respiratori, mascherine, mentre il bilancio di vittime e contagiati appariva fuori controllo. Sembrava che fossimo tutti dentro un'auto in pieno testa coda sul ghiaccio, senza poter toccare né freno né acceleratore: guardavamo solo terrorizzati fuori del finestrino. Poi la macchina ha cominciato a rallentare. Non ci siamo ancora fermati ma i comandi sembrano aver ripreso influenza sulle ruote dell'automobile.

Ora dove andare? Accostiamo, poi parcheggiamo? E poi?

Prima o poi dovremo riprendere la marcia. In che direzione, a che velocità, con quale meta e trasportando chi?

Sono domande che abbiamo ancora paura di porci. Un pò per scaramanzia un pò per non doverci tuffare in un pensiero complicato spigoloso, difficile e anche conflittuale. Partiamo dal problema più immediato: che ospedali dovremo organizzare in futuro? Più grandi e specializzati? È la tentazione immediata. Mai più senza fucile, ci viene da reagire dopo il pericolo.

Io penso che anche questo tema si debba affrontare con una scelta di discontinuità: meno ospedali e più servizi sociali territoriali.

Credo che le eroiche sezioni di terapia intensiva che hanno strenuamente retto l'assalto della pandemia debbano essere diluite sul territorio, in vista di nuove e più evolute epidemie. Un nucleo di terapia estrema, con postazioni di rianimazione d'emergenza e una diffusa rete sul territorio di assistenza a domicilio, con attrezzature mobili di respirazione e infinite riserve di ossigeno. Questo sarà un nuovo welfare pubblico e sussidiario, con un terzo settore perfettamente integrato nella macchina della sanità universale e sistemi privati complementari per prolungare questa macchina. Meno corsie e piu capacità di assistere i malati a casa. Troppi sono stati i morti dopo i primi 3-4 giorni di sintomi perché nessuno li supportava adeguatamente e quando andavano a prenderli erano ormai irreversibilmente in agonia. Troppi decessi a casa, troppe sorprese.

Dobbiano avere una lunga e diffusa rete in grado, quartiere per quartiere, di avere un tracciamento dello stato di salute dei cittadini in regime normale e soprattutto nelle emergenze. Questa è la svolta della fase 2.

Un grande processo di riorganizzazione della sanità pubblica che diventi mobilitazione civile. L'ospedale come back office di tutte le strutture di assistenza con un data base in grado di monitorare le comunità: dal singolo quartiere, alla cittadina, all'intera metropoli, alla regione. Non dovrà mai accadere che si gonfi un'epidemia e ci si faccia sorprendere perché non si hanno i big data.

Bisogna leggere be i social, tracciare i sintomi, prevenire le incubazioni, collegare i flussi dei dati alla georeferenzazione dei malati, adeguando le strutture mobili alla domanda. Il caso Veneto ci dice che è possibile. In quella regione si è riusciti a contenerne gli effetti del contagio ascoltando il territorio e decidendo in velocità. Ascoltare in medicina è sempre stato più importante che parlare. Allah ci ha dato due orecchie e una sola bocca, recita il Corano.

Dobbiano avere una straordinaria capacità di ascolto e una velocissima potenza di reazione. Questa è la via per investire in salute e diventare competitivi nell'assistenza; in modello italiano delle cento città partecipativamente terapeutiche.

#Spillover7: I giardini di marzo

Nessuno è innocente Quanto sta accadendo in questa misero gioco a rinfacciare gli errori degli altri dimostra che quello che non funziona è la verticalità del potere. L'autoritarismo d'ufficio,senza consenso. La Lombardia rinfaccia a Roma i ritardi nel proclamare la zona rossa. Bergamo rinfaccia a Milano il ritardo nel recintare l'emergenza nella provincia.

Governo e regioni hanno fatto errori tragici, costati molti morti.

Qualcuno ha poi avuto intuizioni importanti proprio quando si è appoggiato al territorio,come in Veneto ed in Emilia. La lezione è che nessuno può pensare di decidere in base a regole generali e procedure che garantiscono solo chi decide e non su come si decide. Certo che il sistema delle autonomie regionali ha fallito ma proprio perchè ha riproposto un bonsai del centralismo nazionale. 50 anni di rete ci hanno ormai insegnato che senza un processo di permanente condivisione e mutualistica assistenza fra chi è sul problema e chi deve decidere la soluzione non si riesce a rispondere alla velocità delle domande sociali. Slow news no news,si dice nell'informazione. Anche Slow decisions no decision appare come regola ormai nella governance istituzionale.

Se il sistema ha accelerato le sue pretese gli eventi sono sempre più incalzanti, i processi più autonomi se non interviene con autorevolezza ed efficienza il potere pubblico altri poteri surrogano, automaticamente, all'assenza, anche se per poche ore di indecisione. Siamo in un reggimento di supplenza permanente nel quale sistemi privati hanno capacità, risorse e meccanismi per sostituirsi allo stato.

Il coronavirus ci ha fatto toccare con mano come si possa rispondere all'emergenza epidemiologica mobilitando competenze, in accordo con il senso comune locale. In veneto,a Padova, a Vo comunità concentriche e interconnesse hanno espresso una volontà uniforme, hanno scelto un orientamento sanitario preciso, hanno istintivamente deciso di fidarsi di competenze e saperi che apparivano affini alle culture locali, come l'epidemiologo Crisante.

Un ruolo decisivo lo ha giocato un partito invisibile, un corpo intermedio liquido quale è stato proprio il comunitarismo locale, l'insieme di esperienze sussidiarie che quella regione ha integrato scegliendo il meglio delle diverse culture sociali, dalla mobilitazione dei gruppi omogenei della sinistra, al molecolarismo produttivo del sistema industriale, come fu il modello Benetton, arrivando persino ad attingere alle antiche memorie di autorganizzazione sociale estreme, come furono i gruppi di autonomia operaia in quella regione. Da qui sarebbe utile partire per una riflessione costruttiva su cosa ci possa insegnare la tragedia di Marzo.

In questo mese che rimarrà indelebile nella nostra storia, sperando di poter davvero identificare il contagio solo con marzo, ha preso forma una materialità dello stato italiano piu complessa e matura. Sono diventati visibili circuiti e interessi più performanti che rispondono direttamente ad un richiamo sociale. Lo stato si afferma come agenzia complessiva, legame e massa critica sulla scena internazionale.

La voce del governo sul territorio, tuttavia, rimane modernamente dialettale: Zaia, De Luca, Emiliano, Bonaccini, Toti sono stati interpreti di una governance globale, locale ma sempre con occhi globali, che non sarà possibile ignorare in una strategia di ripresa che non potrà in nessun campo ripristinare niente ma dovrà ricreare tutto. La Lombardia deve trovare un questo un ruolo che non potrà coincidere con questa risposta rissosa e geocorporativa contro Roma. Uno scontro istituzionale per cui non mostra di avere al momento né i titoli né la convenienza a prolungare.

I lombardi hanno giocato una partita tragica, pagando pedaggi tremendi, ma tutto questo non potrà essere usato elettoralmente. Ognuno a Milano, Bergamo, Brescia, Lodi, Codogno sa cosa è successo e dovrà cercare un misura per combinare rabbia e speranza.

Marzo è stato un cimitero ma potrebbe, se si conferma il declino del contagio, essere davvero il giardino di una nuova moderna e competitiva democrazia italiana.

#Spillover6: whatever it takes

Proprio la fatidica decisione di Mario Draghi sta diventando oggi la probabile bandiera della sinistra contro la destra darwiniana. L'Economist con piu autorevolezza e determinazione di Donald Trump ha lanciato il manifesto del capitalismo selettivo: ci saranno morti ma si deve produrre. E la sfida che lanciano i neoconservatori europei oppure quella di fornire una buona ragione per chiudere tutto. Sarà la sfida del futuro.

Fare tutto quanto è necessario, come evocava Draghi nella lotta contro la recessione, per fronteggiare la pandemia è oggi il banco di prova di un nuova welfare state del prossimo secolo. Fare tutto quanto è necessario per salvare la coesione sociale, per dare eguaglianza al pianeta, per riorganizzare in termini sostenibili l'economia, per adeguare i consumi alle necessita, per ridistribuire gli accumuli di profitti, per si tonizzare le diverse parti del mondo, per garantire assistenza agli anziani e sicurezza ai giovani. È questa oggi la linea del fronte. La controffensiva è gia in azione: dateci qualche tampone e aprite le aziende, chi vivrà vivrà. Contro quest'armata che conta insieme liberali tanto al chilo, sovranisti prezzolati, autocrati senza controllo, speculatori a piede libero, intellettuali in cerca di un'ennesima intervista, bisogna che il fronte della salvezza pubblica non sbagli un colpo.

Deve saper calcolare il contagio, usando tutte le risorse computazionali, a cominciare dai gjganteschi server della Silicon Valley, deve puntare forte sulla prevenzione, gestendo con buon senso divieti e autorizzazioni, deve accreditare le speranze e decifrare con precisioni i contraccolpi e deve mettere in campo una straordinaria alleanza con il sapere, scientifico, informatico, umanistico, per parlare, per comunicare, per scoprire per calcolare, con trasparenza e partecipazione. Se ci fosse una forza, un partito, un leader in grado di prendere questa bandiera si faccia avanti, subito, senza se e senza ma.

#Spillover5: tutti in Drive In: vecchi cinema o nuovi film?

Il cinema sta cercando una via per rispondere alla minaccia del contagio, che non sarà di breve durata. Si rispolvera il modello driveIn che ebbe fortuna nell'america degli anni 50/60.

Uno spiazzo, un grande schermo e ognuno a guardare il film nella propria auto dove ci si concedeva anche l'intimità per le prime esperienze post adolescenziali. Potrebbe essere qualcosa più di una semplice ricordo vintage. Il modello DriveIn potrebbe essere un format sociale valido per l'intera gamma delle prossime relazioni sociali, in cui la distanza interpersonale rimarrà essenziale. Un format in cui conciliare libertà e sicurezza. Un modello tipico di quella democrazia immunitaria che il virus ha solo esasperato,rispetto ad una tendenza che già si vedeva nettamente imporsi . DriveIn significa un sistema di moltitudini, in cui ognuno rimane separato e distinto dagli altri ma con esso è strettamente connesso, materialmente, per poter tessere occasionali e improvvisate relazioni professionali o personali.

Stiamo andando verso un intero mondo DriveIn. Un mondo dove la scuola sarà un alveare a distanza, composto da cellette individuali. Dove la fabbrica sarà sempre più un hub di attività in remoto. Dove la sanita sarà telemedicina ed i dottori controlleranno i dati biosanitari a distanza per scorgere rischi di nuovi contagi. In questo contesto potrebbe anche affiorare una domanda di nuova materialità dei rapporti che non sia alternativa ma integrativa al DriveIn. Cosi come la visione del cinema era pretesto anche per isolarsi con il proprio partner, la distanza sociale potrebbe oggi essere riprogrammata, diventare un format a costellazioni, in una geometria di relazioni fra microcomunità, in cui autorganizzare una propria vita, una propria economia.

In questa prospettiva conteranno i collanti sociali: moneta, sicurezza, sanità, informazione e sopratutto connettività. Chi controllerà questi collanti esercitera il potere reale, determinerà i destini anche la vita e la morte in base alle aspettative di cura. In questa logica quali saranno i conflitti reali? Sarà plausibile pensare di ritornare alle tradizioni materiali, ritornare alla scuola fisica, alla fabbrica manifatturiera, al medico che visita direttamente, all'università delle lezioni frontali? O invece sarà più logico cercare di agire sui collanti? I dati di chi saranno, pubblici o privati? Gli algoritmi che condivisione avranno? Le reti come potranno essere autogestite? Le cure come potranno essere condivise e controllate? Insomma vale la pena di combattere per tornare ai vecchi cinema o per condizionare i nuovi film?

#Spillover4: materiali edilizi per la ricostruzione

Inizio una serie di apounti che spero di non condurre da solo. Proporrò di condividere intanto ai miei studenti di Napoli questa raccolta di appunti e impressioni per poi decidere se usarla dopo.

È la borsa,bellezza.

I dati di questa mattina dopo la prima boccata d'aria di ieri, con il mutamento dell'epidemia, sono indecenti in borsa. Bande di speculatori, in un momento di emergenza globale, non trovano di meglio che avventarsi sui titoli per strizzarne ancora guadagni al ribasso e poter poi ricomprare intere aziende per quattro soldi.

È il mercato bellezza si potrebbe dire.

No, non è il mercato, è l'assurda avidità di chi credendo poter tagliare il ramo su cui è seduto per provare l'ebrezza di qualche istante di volo poi si schianterà al suolo anche lui. Tutto lo scenario economico è in avvitamento. Le aziende sono chiuse e chiuderanno anche le poche aperte. Ovunque. Tedeschi, inglesi, americani, gli stessi Coreani, hanno bloccato attività e fabbriche. La spirale non può non essere negativa. Perchè tenere le borse aperte? Solo per permettere a qualche corsaro di razziare ancora ricchezza? Possibile che i grandi gruppi finanziari, i famosi fondi pensione ed i mitici Edege Fund, le banche d'affari in questo momento non abbiano altro istinto che colpire piccoli risparmiatori ed interi stati? Certo, la logica del profitto non ammette deroghe.

Ma anche la logica della sopravvivenza non ne ammetterebbe se in questo momento migliaia di persone in tutto il mondo non stessero mettendo in pericolo la propria vita per ridurre il pericolo di tutti gli altri.

Siamo in una situazione eccezionale. I capi di stato e di givernonsono sotto attacco ed i ricchissimi che fanno? Speculano a Milano, Madrid, Londra, Francoforte, Hong Kong, Tokyo, New York. È indecente. Il capitalismo della sorveglianza non riesce nemmeno a mitigare momentaneamente se stesso, non prova nemmeno ad essere compassionevole. Ricordiamocelo. Dopo quando capiterà, quando potremo uscire dalla quarantena globale, si sappia chi ha fatto borsa nera delle speranze. Avrà la sua Norimberga.

#Spillover3: chi conta i virus?

La recidiva di Wuhan, con il ritorno alla quarantena della megalopoli cinese, ci dice che questa storia non è un film dell'horror ma una lunga inesauribile telenovena al cui confronto l'interminabile Beautiful è poco più di un corto.

Siamo solo alle avvisaglie di un percorso ad ostacoli che si prolungherà per molti anni e che sarà tutto giocato sulla capacità e la condivisione della misurazione della minaccia del virus. Quando e come si coglierà il formarsi del.contagio di ritorno e come si riporterà la gente in casa? Quali le attività che verranno sospese e quali potranno procedere nelle diverse forme a distanza? Sono domande che decideranno la vita e il futuro di intere comunità. Si annunciano tempi burrascosi dove, insieme alle fasce più marginali che chiedono assistenza, si affolleranno ceti medi frustrati e insediati nei propri primati che prenderanno garanzie.

Per la tenuta delle istituzioni democratiche,per la stessa convivenza civile sarà determinante che il soggetto pubblico abbia realmente la capacità di contare i malati. Ad oggi non è successo e la cosa ancora rende difficile l'accreditamento delle previsioni che vengono dal governo. Non solo bisognerà calcolare ma anche localizzare, georeferenziare, centrare stati d'animo e segnali che preludono a fastidi e nuova incubazione. Senza questi strumenti la politica si troverà a seguire i soggetti privati che dispongono di questi dati come appunto Google e Facebook.

Proprio Google ieri ha annunciato che, sua sponte, libera dati utili a fotografare la dinamiche sul territori di possibili infettati, tracciando spostamenti nelle zone rosse. Possibile che nessuno glielo abbia chiesto prima? Come si pensa a maggio e giugno,ed ancora dopo, a poter cogliere il formarsi di stati d'allarme come fu a febbraio quanto era decifrabile facilmente sulla rete? Lo stato ora si identifica con questa potenza, raccogliere i dati sensibili ed elaborarli. Almeno come fanno i privati. Se non eserciterà questo potere ci avvieremo ad una balcanizzazione delle quarantene, con una minaccia per la tenuta stessa della democrazia.

#Spillover2: cronache da un contagio

Lo snobismo della propria libertà

L'unico modo per ridurre quel terribile buco nero che separa il contagio reale da quello ufficiale, che il capo della protezione civile Borrelli calcola in un rapporto da 1 a 10 a favore degli asintomatici giovani, è il tracciamento sui social. Solo ricostruendo gli ultimi 30 giorni di attività sarebbe possibile mappare i contagiati potenziali e i loro contatti. Invece si assiste ad una demenziale corsa alle app. Un'app senza dati sensibili è un trenino elettrico senza corrente.

I dati in Corea del sud sono venuti dalla complicità sociale che in questo paese è del tutto assente come il numero di pedoni per strada nelle città dimostra. Bisogna aprire le blackbox per fare quello che Facebook e Google fanno tutti i giorni da decine di anni. Eppure si assiste all'esibizione di un reiterante snobismo garantista, di chi si sente braccato dallo stato.

Convergono in questo gorgo anarcoide individualista aree di destra radicale che usa lo spettro dello statalismo per aizzare all'assalto contro il governo e alla confusione sollecitata dagli hacker di varia origine balcanica e da una intellighenzia di sinistra che si sente oppressa da un incipiente grande fratello. Entrambe le culture non hanno espresso un simile disagio di fronte a quel capitalismo della sorveglianza descritto nel suo libro da Shoshanna Zuboff. La miseria di una rivendicazione di libertà anti statale appare evidente quando si tramuta in passiva e subalterna acquiescenza verso la proprietà multinazionale. La destra in questo si trova a casa propria.

È esattamente la riproposizione dell'autentica identità di Heidegger che guidò le squadracce naziste nell'attacco contro la democrazia. È a sinistra che si misura l'effetto di un distacco completo da un'idea di bene comune e di visione sociale egualitaria. Oggi eguaglianza è distribuzione del diritto alla vita e al benessere, ricavato dalla condivisione di tutte le risorse e le energie. A partire da quelle tecnologiche e scientifiche.

Una astratta concezione di libertà che si traduce nella possibilità di trovare una via individuale alla sopravvivenza, uscendo dal lazzaretto a cui si condanna la gente comune, è il segno di un fallimento umano, prima che ideologico, di una leva di intellettuali che rimpiange un primato che non ha più e trova solo nel ribellismo il modo di segnlalarsi al mondo dei vivi. Fino a quando non arriva il prossimo virus.

#Spillover1: l'insostenibile pesantezza del single

La pandemia ci sta resettando valori e percezioni sociali. Pensiamo alla figura che fino a qualche settimana fa ancora giganteggiava sulla scena sociale: il single rampante, giramondo del nord. Un leone della giungla, invidiato da tutti. Era il dominatore dello scenario digitale, dell'economia globalizzata e smaterializzata. L'indomito talento in qualche cosa, quello che faceva meglio di tutti quella specifica cosa, padrone di se stesso, senza ansie e senza paure. Ora siamo allo spoon river di quel guerriero.

Certo rimane un privilegiato rispetto alle aree di disagio vero. Ha case adeguate, riserve di risorse, relazioni diffuse ma è solo. Senza nessuno nel suo appartamento super accessoriato. Nessuno con cui parlare fisicamente, con cui confidare i timori, confrontare i possibili sintomi, nessuno su cui contare per un'eventuale emergenza. Oppure, peggio, nessuno su cui riversare le proprie cure, scaricando cosi la proprio angoscia nella preoccupazione per un altro .In generale nemmeno un cane o un gatto. La vita dinamica impediva pendenze. Ora si devono riscoprire i legami famigliari. Scovare i parenti, provare a stringere cerchie.

Come spiegavano, da prima del virus, i dati americani soli si muore. Non piu un dato statistico. È una drammatica cronaca.

Pensiamo a cosa succede nelle case quando si adombra uno stato febbrile: si cerca subito un riscontro fra i conviventi: come mi vedi? che dici? chiamo il medico? nel caso mi raccomando chiama anche tizio che puo parlare con Caio e avere notizie.

Niente di questa sussidiarietà famigliare è attivabile. Si deve fare da soli. Si rimane soli.

Non potrebbe esserci un indicatore piu spietato del fallimento del sistema sociale che abbiamo ormai alle spalle. Sopratutto non potrebbe una spiegazione piu persuasiva per capire e condividere da che cosa ripartire.