L’osservAutore: fenomenologia di un giornalismo sociale al tempo della riproducibilità delle opinioni.

di Michele Mezza

pubblicato il 2 marzo 2019

Il mondo è tutto ciò che accade, diceva Ludwig Wittgenstein. Per questo la capacità o il potere di descrivere i fatti che accadono è sempre stata il centro della contesa sia politica che filosofica nel mondo. Qual è il valore di una testimonianza, o di un resoconto o ancora di un’osservazione, che ricostruisce e rende il senso del mondo?
Il mondo dell’informazione, e specificatamente il giornalismo che ne è parte ma non lo esaurisce certo, si trova a dover definire nitidamente questa relazione fra mondo e testimonianza per recuperare e difendere la propria ragion d’essere. Ma non è possibile collocare nella modernità il giornalismo se non cogliamo gli aspetti antropologici, di fondo, che le nuove dinamiche tecnologiche hanno rivelato, ridefinendo tutti gli attori del sistema della comunicazione.
“Ogni fotografia è un’opinione” sosteneva Richard Avedon, uno dei grandi fotografi del 900, dandoci una pista di ricerca per cogliere appunto la novità della nuova informazione.
Tuttavia nel momento stesso in cui puntiamo un obiettivo su un evento quel divenire muta dinamica e significato. Chi fotografa diventa inevitabilmente co protagonista, e non solo un osservatore.
Questa consapevolezza vale proprio oggi nell’epoca del selfie.
Nel momento in cui puntiamo la fotocamera del nostro telefonino su noi stessi, diamo una torsione alla storia che stiamo vivendo, mutando la nostra intimità.
Per secoli il rapporto fra esperienza e visione, fra osservazione e concetto è stato al centro delle disquisizioni di filosofi e scienziati. Dal cannocchiale di Galileo, fino alle intuizioni di McLuhan, si disegna un percorso in cui la ricerca scientifica da una forma più solida e fondata all’espansione della comunicazione. Il nodo riguarda proprio l’impatto dello sguardo del testimone sull’oggetto-evento che si osserva.

Oggi abbiamo la prova concreta di questa interferenza materiale.
La fisica, dopo le contrapposizioni filosofiche fra positivisti e idealisti, fra esperienza e speculazione, si è incaricata di darci prova concreta di questo nesso fra osservatore e osservato. Dalle torsioni della relatività di Einstein fino alla Interpretazione di Copenaghen di Niels Bohr e Werner Heisenberg, che ci diceva che una particella quantistica non esiste se non è misurata, dunque osservata, affermando dunque che l’atto di inquadrarla e qualificarla la rende esistente, sostenendo una sorta di creazione mediante osservazione, si è giunti oggi all’ultimo esperimento condotto da un’équipe di scienziati della Heriot-Watt University a Edinburgo (cui hanno partecipato anche due italiani, Massimiliano Proietti e Francesco Graffiti) dove si è visibilmente misurato il livello di interferenza nella dinamica di 4 particelle quantiche dell’atto di osservarle. La dinamica e la struttura di queste particelle muta visibilmente con il progredire dell’osservazione di cui sono oggetto in laboratorio. La testimonianza di un fatto, di conseguenza, diventa parte costitutiva della sua evoluzione ed epilogo.
Il testimone diventa protagonista.
Si tratta di una straordinaria acquisizione, che cambia il quadro cognitivo ed epistemologico dell’intero scenario sociale. Possiamo oggi vedere direttamente quel meccanismo materiale che regola la relazione fra osservatore ed osservato.
E’ questa la base di quel ragionamento che, per arrivare al nostro contesto nell’informazione, fece scrivere a McLuhan “Il messaggio di un medium o di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni, di ritmo e di schemi che introduce nei rapporti umani” ( Gli strumenti del comunicare, 1964). I media sono ordinatori sociali, categorie che promuovono la storia non la raccontano soltanto. Umberto Galimberti nel suo saggio Psiche e Techne ( Feltrinelli, 1999) a spiegarci che “l’informazione cessa di essere un resoconto per tradursi in una vera e propria costruzione dei fatti, e questo non nel senso che molti fatti del mondo non avrebbero rilevanza se i media non ce li proponessero ma perché un enorme numero di azioni non verrebbero compiute se i mezzi di comunicazione non ne dessero notizia. Oggi il mondo accade perché lo si comunica,e il mondo comunicato è l’unico che abitiamo“.
Una visione questa di Galimberti che riclassifica l’intera gerarchia degli attori sociali, attribuendo all’informazione una dimensione di agente diretto e discrezionale della realtà. L’intero sistema dell’informazione, con tutto lo sciame dei suoi osservatori ed osservati, è il motore reale e concreto della storia: gli eventi, i fatti, le decisioni, si realizzano solo e perché diventano materia di pubblica consapevolezza mediante il sistema mediatico.
It from bit, diceva appunto Arcibald Wheeler, l’ultimo collaboratore di Albert Einstein, scomparso non molti anni fa. Tutto è comunicazione, meglio ancora, tutto è spostamento di bit, per andare incontro alla drastica definizione di Claude Shannon per cui l’informazione non è altro che “lo spostamento di un contenuto da un punto all’altro dello spazio. A volte persino con un senso” (The matematical Theory of comunication ).
Allineando queste conclusioni che non a caso ci vengono prevalentemente dal mondo del calcolo più che dalla sociologia dei media, ricaviamo che la materialità della nuova società a rete, basata su una incessante azione di connessione e trasmissione punto a punto fra ogni individuo, non è un‘improvvisa escrescenza, che deforma e distorce la regolarità del mondo della comunicazione, basata su un flusso che da pochi arriva a tanti, disvelando le notizie, ma semplicemente l’organizzazione di un istinto naturale che rende ogni essere umano un protagonista diretto e interferente della realtà mediante la sua testimonianza.

“Nel nostro secolo stiamo riavvolgendo il nastro” ci avvertiva McLuhan, sostenendo che l’innovazione tecnologica, estendendo la gamma dei sensi che vengono attivati dalla comunicazione elettrica rispetto a quella stampata, lineare e monosensuale, è un ripristino delle pratiche orali multimediali dell’umanità.
Proprio un’analisi retrospettiva dell’evoluzione ci permette di intercettare la vera natura di quel processo tecnologico che oggi chiamiamo interattività, e che è accoppiato con la disintermediazione, procedendo per moltiplicazione dei trasmettitori e dei connettori.
Infatti se la testimonianza, l’osservazione, di un evento o di un fatto, è un’azione interattiva, che interferisce e modifica il divenire di quel evento o fatto, allora il ruolo dell’osservatore è sempre più coincidente con quello di ogni singolo individuo che vive intervenendo in una miriade di microeventi o microfatti, agendo su di essi.
Meglio lo spiega il filosofo epistemologo Fred Drestke dicendo “la bellezza è nell’occhio dell’osservatore, e l’informazione è nella testa del ricevente”. Per questa corrispondenza fra trasmittente e ricevente di ogni informazione, per cui la comunicazione si realizza mediante la cooperazione diretta fra i due punti, senza un gerarchico primato del primo sul secondo, si spiega come, documenta nel suo saggio Homo deus, Yuval Harari, l’homo sapiens prevale su tutto il pianeta in virtù della sua attitudine a cooperare, creando reti sociali.
L’armonia orizzontale di queste reti sociali, spiega ancora Harari, si spezza dando forma a gerarchie verticali con l’irruzione nella storia degli ordini immaginari, ossia il simbolismo mitologico, che dalle religioni, fino ai poteri dinastici arrivando ai postulati scientifici ed economici, fissano valori e principi che organizzano la vita, al di fuori dei quali la sopravvivenza degli individui non è garantita. La competizione fra ordini immaginari e reti sociali è una delle chiavi della storia. Ed oggi, possiamo dire che proprio la consapevolezza del potere delle reti di assicurare ruolo e ambizione degli individui, aggirando ogni ordine superiore, e contestando ogni gerarchia naturale, ci da ragione di questa stagione di grande precarietà dei poteri tradizionali e delle figure sociali di snodo.
Parimenti proprio questo logoramento dei poteri verticali ci dice, svela la natura e le motivazioni di quel processo di ripristino delle autorità centrali medianti il calcolo. L’algoritmo, meglio ancora, la proprietà monopolista degli algoritmi, come le grandi piattaforme di Google, Facebook e Amazon, rimediando la realtà attraverso il calcolo rimettono al centro la proprietà come agente sociale dominante. Uno scenario che era già nella testa di chi, addirittura all’inizio del secolo scorso, analizzando quella tragica spirale di tecnologia che fu la prima guerra mondiale intravvide questo destino, come Walter Benjamin che scrisse nel suo saggio destino e carattere del 1919: se il carattere di un uomo, ossia il suo modo di reagire, fosse conosciuto in tutti i suoi dettagli e se anche gli avvenimenti universali fossero conosciuti almeno nei suoi punti di contatto con quel carattere si potrebbe dire con esattezza che cosa accadrà a quel carattere e quali saranno le sue azioni. In altre parole sarebbe conosciuto il suo destino. E’ la più profetica anticipazione del big data. Ancora di più, si annuncia qui il potere devastante nei processi di determinazione dell’opinione pubblica di Cambridge Analytica che campionando linguaggi e comportamenti raccoglie il catalogo dei destini delle comunità su cui interviene. L’informazione diventa esclusivamente il suo algoritmo. E la libertà si identifica con la capacità di negoziare e integrare il sistema di calcolo del futuro.